07 April 2017
Papillomavirus, perché vaccinarsi
E’ il caso di vaccinare la propria figlia contro i Papillomavirus (HPV)? Senz’altro sì, per una serie di buone ragioni che è bene condividere insieme, anche per sciogliere una forte preoccupazione di fondo. In questo periodo, infatti, i genitori guardano con sospetto le vaccinazioni: perché non vedono più le conseguenze gravi di malattie come la poliomielite, il vaiolo o la pertosse, e sono colpiti dai rari casi di conseguenze avverse del vaccino stesso. In realtà, queste e altre malattie infettive sono sotto controllo proprio perché la maggioranza della popolazione è vaccinata. Nel momento in cui la libera scelta dei genitori porterà ad un aumento critico dei bambini non vaccinati, ci ritroveremo di fronte a focolai pericolosi di patologie gravi e irreversibili.
E’ giusto dunque sottolineare ancora una volta che i vaccini, specie se eseguiti in età appropriata, sono fondamentali per la prevenzione di malattie severe e, a volte, potenzialmente mortali. Il problema della scelta, se vaccinare o no la propria figlia (ma anche un figlio) contro gli HPV, apre dunque un nuovo capitolo nel grande dossier sulle vaccinazioni. Nello specifico, la vaccinazione preventiva contro l’HPV (cioè prima che il soggetto sia venuto a contatto con il virus) previene lesioni benigne e maligne (carcinomi) causate dal virus. Perché se ne parla ora? Perché, dopo una lunga fase di sperimentazione clinica, entra in commercio il primo vaccino quadrivalente capace di prevenire proliferazioni cellulari benigne e maligne causate da un virus. Di fatto: la prima vaccinazione contro un possibile cancro umano. Un’innovazione straordinaria. Chi sono i Papillomavirus? Si tratta di un’enorme famiglia, di oltre 100 ceppi diversi. Alcuni tipi sono di maggiore interesse per la patologia umana, in quanto responsabili sia di lesioni benigne, ma fastidiose, quali sono le verruche cutanee, dette veneree quando interessano la cute e le mucose genitali, sia di temibili carcinomi del collo dell’utero, della vagina, della vulva (ossia dei genitali esterni femminili), ma anche anali e laringei. Nella donna, il tipo 6 e 11 causano il 90 per cento delle verruche veneree o condilomi e sono pertanto considerati a basso rischio oncogeno. Il tipo 16 e 18 causano il 70 per cento dei cancri invasivi del collo dell’utero. Il rimanente 30 per cento è causato da altri ceppi HPV ad alto rischio oncogeno. Nell’uomo, le verruche veneree (causate dal tipo 6 e 11) sono molto frequenti, specie negli uomini promiscui e che non usano il profilattico. Di fatto, dei veri e propri “untori” di manzoniana memoria. Una volta queste verruche venivano chiamate, con un malposto orgoglio, “creste di gallo”, quasi fossero dei trofei di successo sessuale. I carcinomi genitali da HPV, invece, sono nel maschio molto rari. Per ragioni ancora poco comprese, molte persone si difendono spontaneamente dall’infezione, sviluppando anticorpi efficaci a proteggere le cellule dall’invasione virale. Una minoranza, invece, non ce la fa ed ecco che il virus, a seconda del suo ceppo, può causare i condilomi oppure le lesioni cellulari che, se non diagnosticate e ben trattate, possono predisporre allo sviluppo di carcinomi, come si diceva, soprattutto nella donna.
E’ giusto dunque sottolineare ancora una volta che i vaccini, specie se eseguiti in età appropriata, sono fondamentali per la prevenzione di malattie severe e, a volte, potenzialmente mortali. Il problema della scelta, se vaccinare o no la propria figlia (ma anche un figlio) contro gli HPV, apre dunque un nuovo capitolo nel grande dossier sulle vaccinazioni. Nello specifico, la vaccinazione preventiva contro l’HPV (cioè prima che il soggetto sia venuto a contatto con il virus) previene lesioni benigne e maligne (carcinomi) causate dal virus. Perché se ne parla ora? Perché, dopo una lunga fase di sperimentazione clinica, entra in commercio il primo vaccino quadrivalente capace di prevenire proliferazioni cellulari benigne e maligne causate da un virus. Di fatto: la prima vaccinazione contro un possibile cancro umano. Un’innovazione straordinaria. Chi sono i Papillomavirus? Si tratta di un’enorme famiglia, di oltre 100 ceppi diversi. Alcuni tipi sono di maggiore interesse per la patologia umana, in quanto responsabili sia di lesioni benigne, ma fastidiose, quali sono le verruche cutanee, dette veneree quando interessano la cute e le mucose genitali, sia di temibili carcinomi del collo dell’utero, della vagina, della vulva (ossia dei genitali esterni femminili), ma anche anali e laringei. Nella donna, il tipo 6 e 11 causano il 90 per cento delle verruche veneree o condilomi e sono pertanto considerati a basso rischio oncogeno. Il tipo 16 e 18 causano il 70 per cento dei cancri invasivi del collo dell’utero. Il rimanente 30 per cento è causato da altri ceppi HPV ad alto rischio oncogeno. Nell’uomo, le verruche veneree (causate dal tipo 6 e 11) sono molto frequenti, specie negli uomini promiscui e che non usano il profilattico. Di fatto, dei veri e propri “untori” di manzoniana memoria. Una volta queste verruche venivano chiamate, con un malposto orgoglio, “creste di gallo”, quasi fossero dei trofei di successo sessuale. I carcinomi genitali da HPV, invece, sono nel maschio molto rari. Per ragioni ancora poco comprese, molte persone si difendono spontaneamente dall’infezione, sviluppando anticorpi efficaci a proteggere le cellule dall’invasione virale. Una minoranza, invece, non ce la fa ed ecco che il virus, a seconda del suo ceppo, può causare i condilomi oppure le lesioni cellulari che, se non diagnosticate e ben trattate, possono predisporre allo sviluppo di carcinomi, come si diceva, soprattutto nella donna.
Sono stati studiati vaccini monovalenti (contro il tipo 16), bivalenti (contro il tipo 16 e 18), quadrivalenti (contro 6, 11, 16 e 18). Quest’ultimo è il più utile, perché riuscirà a prevenire più del 90 per cento dei condilomi e il 70 per cento dei carcinomi del collo dell’utero. L’obiettivo della vaccinazione è duplice:
a) impedire che il virus entrato nell’organismo penetri nelle cellule e si moltiplichi: gli anticorpi, detti “neutralizzanti”, sono infatti designati per attaccare la capsula, detta capsìde, ossia la carrozzeria del virus, bloccandone così l’entrata e la possibilità di moltiplicazione. Si parla in tal caso di vaccinazione preventiva, che è fin da ora disponibile. E’ adatta dunque a chi non abbia ancora incontrato il virus. L’efficacia nel ridurre l’infezione è ottima: più del 90 per cento. Ecco perché si pensa di vaccinare bambine e adolescenti, dagli undici (o dai nove) anni in su;
b) impedire che le cellule già infettate “progrediscano” nel processo di trasformazione tumorale (da neoplasia intraepiteliale fino a cancro invasivo): gli anticorpi attaccano due proteine oncogene specifiche, poste dentro il virus, capaci di attivare la progressione cellulare da cellula sana a malata, con la progressiva alterazione da displasia lieve a grave, fino al carcinoma in situ e poi invasivo. Questa è la vaccinazione terapeutica, ossia curativa, che sarà utile a chi abbia già contratto il virus. Tuttavia, i vaccini di questo secondo tipo sono ancora alla fase di sperimentazione. Purtroppo è ancora variabile la loro efficacia effettiva nel ridurre la progressione delle alterazioni cellulari.
Il primo obiettivo, la vaccinazione preventiva disponibile anche per le donne italiane. Il secondo è ancora da perfezionare. Restano alcune domande essenziali: a) come si fa a sapere se si è già contratto il virus o meno? Innanzitutto, con il cosiddetto “vira-pap”, ossia il test per la ricerca delle sequenze dei Papillomavirus che hanno causato l’infezione. Questo esame viene effettuato con un semplice prelievo, mediante spazzolina indolore, applicata per pochi secondi sulle mucose del collo dell’utero o di altre sedi. Ci consente di capire se si sia già incontrato il virus e, in caso affermativo, se si tratti di ceppi a basso o alto rischio oncogeno, ossia con bassa o alta probabilità di trasformare le cellule del collo dell’utero da sane a pretumorali fino a francamente invasive; b) a che età sarebbe meglio vaccinare la propria figlia? Il dibattito su questo punto è acceso. L’orientamento è di vaccinare le bimbe dai 9 ai 12 anni, età in cui è probabile che non abbiamo ancora incontrato i virus, per lo meno i ceppi 16 e 18, i più pericolosi, che sono trasmessi attraverso il rapporto sessuale. I ceppi 6 e 11, che causano le verruche cutanee e veneree, possono essere contratti anche attraverso le mani, se hanno verruche, e infatti sono molto diffusi nelle scuole o tra i militari; c) dovremmo vaccinare anche i maschietti? Per il momento la scelta è di vaccinare solo le bambine. Personalmente, farei vaccinare anche i maschietti: perché non vorrei mai che, da adolescenti o da adulti, fossero i portatori sani ("untori”) di virus che possano infettare la ragazza di una notte o la donna della loro vita. Nello stesso tempo, li educherei comunque all’autoprotezione (usare sempre il profilattico) che è anche protezione della compagna o del compagno, per due ottime ragione: perché il vaccino non copre quel 30 per cento di virus oncogeni ancora liberi di causare malattia, e perché il vaccino, che è specifico, non protegge da altre gravi malattie sessualmente trasmesse.
In sintesi: vaccinare sì, perché possiamo pragmaticamente ridurre un’infezione oncogena grave. Un atto etico. Ma educhiamo comunque a mantenere alta la guardia, nel senso di responsabilità verso di sé e verso la donna con cui si fa l’amore. Perché un momento di passione non diventi poi per lei l’inizio di un calvario infinito.
a) impedire che il virus entrato nell’organismo penetri nelle cellule e si moltiplichi: gli anticorpi, detti “neutralizzanti”, sono infatti designati per attaccare la capsula, detta capsìde, ossia la carrozzeria del virus, bloccandone così l’entrata e la possibilità di moltiplicazione. Si parla in tal caso di vaccinazione preventiva, che è fin da ora disponibile. E’ adatta dunque a chi non abbia ancora incontrato il virus. L’efficacia nel ridurre l’infezione è ottima: più del 90 per cento. Ecco perché si pensa di vaccinare bambine e adolescenti, dagli undici (o dai nove) anni in su;
b) impedire che le cellule già infettate “progrediscano” nel processo di trasformazione tumorale (da neoplasia intraepiteliale fino a cancro invasivo): gli anticorpi attaccano due proteine oncogene specifiche, poste dentro il virus, capaci di attivare la progressione cellulare da cellula sana a malata, con la progressiva alterazione da displasia lieve a grave, fino al carcinoma in situ e poi invasivo. Questa è la vaccinazione terapeutica, ossia curativa, che sarà utile a chi abbia già contratto il virus. Tuttavia, i vaccini di questo secondo tipo sono ancora alla fase di sperimentazione. Purtroppo è ancora variabile la loro efficacia effettiva nel ridurre la progressione delle alterazioni cellulari.
Il primo obiettivo, la vaccinazione preventiva disponibile anche per le donne italiane. Il secondo è ancora da perfezionare. Restano alcune domande essenziali: a) come si fa a sapere se si è già contratto il virus o meno? Innanzitutto, con il cosiddetto “vira-pap”, ossia il test per la ricerca delle sequenze dei Papillomavirus che hanno causato l’infezione. Questo esame viene effettuato con un semplice prelievo, mediante spazzolina indolore, applicata per pochi secondi sulle mucose del collo dell’utero o di altre sedi. Ci consente di capire se si sia già incontrato il virus e, in caso affermativo, se si tratti di ceppi a basso o alto rischio oncogeno, ossia con bassa o alta probabilità di trasformare le cellule del collo dell’utero da sane a pretumorali fino a francamente invasive; b) a che età sarebbe meglio vaccinare la propria figlia? Il dibattito su questo punto è acceso. L’orientamento è di vaccinare le bimbe dai 9 ai 12 anni, età in cui è probabile che non abbiamo ancora incontrato i virus, per lo meno i ceppi 16 e 18, i più pericolosi, che sono trasmessi attraverso il rapporto sessuale. I ceppi 6 e 11, che causano le verruche cutanee e veneree, possono essere contratti anche attraverso le mani, se hanno verruche, e infatti sono molto diffusi nelle scuole o tra i militari; c) dovremmo vaccinare anche i maschietti? Per il momento la scelta è di vaccinare solo le bambine. Personalmente, farei vaccinare anche i maschietti: perché non vorrei mai che, da adolescenti o da adulti, fossero i portatori sani ("untori”) di virus che possano infettare la ragazza di una notte o la donna della loro vita. Nello stesso tempo, li educherei comunque all’autoprotezione (usare sempre il profilattico) che è anche protezione della compagna o del compagno, per due ottime ragione: perché il vaccino non copre quel 30 per cento di virus oncogeni ancora liberi di causare malattia, e perché il vaccino, che è specifico, non protegge da altre gravi malattie sessualmente trasmesse.
In sintesi: vaccinare sì, perché possiamo pragmaticamente ridurre un’infezione oncogena grave. Un atto etico. Ma educhiamo comunque a mantenere alta la guardia, nel senso di responsabilità verso di sé e verso la donna con cui si fa l’amore. Perché un momento di passione non diventi poi per lei l’inizio di un calvario infinito.